Nella sua ricerca dell’efficacia dello tsuki, S. Egami, in un primo tempo, si allena assiduamente al makiwara, poi se ne allontana. Ecco come descrive questo processo di evoluzione e il suo esito: «Il makiwara è considerato come uno strumento indispensabile per l’esercizio del Karate. Ho pensato per lungo tempo al makiwara come al compagno della mia vita. Mi sono assiduamente esercitato al makiwara per 25 anni. In tutte le circostanze, non ho mai perso un giorno di lavoro al makiwara. Anche in viaggio mi portavo un makiwara, perché senza questo esercizio mi sentivo male. «Ma, man mano che progredivo, il mio modo di pensare è cambiato. Mi sono progressivamente allontanato dal makiwara, trovandolo poco necessario, poi sono arrivato a non trovare alcun valore in questo esercizio, ed infine, oggi, penso che il makiwara sia nocivo per il Karate. «Un giorno d’autunno, quando avevo all’incirca vent’anni, di fronte a un castagno del giardino, ho pensato: “Potrei far cadere tutte le castagne con un solo pugno contro il tronco?”. Ho grattato la corteccia per facilitare il contatto del mio pugno, poi ho colpito con tutta la mia forza. Con un piccolo rumore, è caduta solo qualche castagna, come per consolarmi; ero ben lontano dall’averle fatte cadere tutte. Inoltre il mio pugno si è subito talmente gonfiato che mi sono chiesto con inquietudine se non si fosse definitivamente rotto. Dopo questa esperienza ho ottenuto un pugno molto duro e solido, e ho potuto rompere delle assi e delle tegole, ma non ho mai potuto ottenere una fiducia assoluta dell’efficacia del colpo… «Ho incontrato talvolta persone che avevano i pugni callosi a forza di allenarsi al makiwara, in cui le prime articolazioni erano coperte di pelle cornea nera e spessa come quella del tallone. Erano mani terribili da guardare, ma quando ho loro domandato di colpirmi al ventre, ho constatato che i loro colpi non erano efficaci. Queste esperienze mi hanno indotto a diffidare del makiwara. Ma in fondo a me stesso, pensavo che il mio colpo non era come quello degli altri, e ho continuato a cercare di colpire in maniere diverse, affrontando delle difficoltà. Nel corso di questa ricerca, sono stato obbligato progressivamente a trasformare il modo di formare il pugno e ho finito per trasformarlo completamente. La mia conclusione è stata la seguente: per effettuare uno tsuki efficace, non bisogna colpire come si impara abitualmente, occorre cambiare la forma del pugno. E se si assume questa forma efficace, non ci si può esercitare al makiwara. Così ho abbandonato completamente l’esercizio al makiwara: era circa il 1958». «Proseguendo la mia ricerca, ho anche compreso che l’esercizio al makiwara non è solo inefficace, ma è nocivo per la salute. E’ evidente, se si studia, anche poco, l’agopuntura o lo shiatsu». Queste riflessioni, e loro conclusioni, sono tanto più interessanti e importanti in quanto S. Egami ha inizialmente praticato in profondità la forma di Karate che criticherà in seguito. Per quanto riguarda il makiwara, per esempio, non si tratta della critica di una persona che ragiona senza aver mai praticato. Egli formula la sua critica con il peso di 25 anni di pratica. Una domanda semplice grave si impone: perché, allora, l’allenamento al makiwara esiste ed è raccomandato nella tradizione del karate di Okinawa? È forse fondamentalmente errato? Si tratta forse di un problema relativo, dato che S. Egami aveva superato il metodo tradizionale del karate di Okinawa e le sue considerazioni non si limitavano al makiwara, ma si estendevano al metodo nel suo insieme?
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